E' legittimo il licenziamento per giusta causa intimato ad un lavoratore che, con l'aggravante della recidiva, richiesto della restituzione di una somma danaro, per errore rimborsata due volte a titolo di spese di carburante, insulti con epiteti ingiuriosi l'amministratore delegato al cospetto del cassiere e di altri dipendenti del datore di lavoro.
E' quanto ha stabilito la Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, con la Sentenza del 21 marzo 2016, n. 5523 mediante la quale ha rigettato il ricorso proposto dalla ricorrente e confermato quanto deciso dalla Corte d'appello di Torino con la sentenza n. 791/2014.
La pronuncia traeva origine dal FATTO che con la sentenza n. 791 citata la Corte d'appello di Torino rigettava il reclamo proposto da una lavoratrice licenziata avverso la sentenza del Tribunale della stessa sede e rigettato il ricorso proposto al fine di ottenere la dichiarazione di illegittimità del licenziamento irrogatole con lettera del 18.6.2013 dalla sua datrice di lavoro, a seguito di contestazione disciplinare con la quale le si addebitava di avere utilizzato davanti al cassiere della società epiteti ingiuriosi nei confronti dell'amministratore delegato ("sto barbone di merda" "così si va a comprare un gelato sto coglione") che le aveva richiesto la restituzione della somma di 50 euro rimborsata due volte per errore a titolo di spese di carburante, con l'aggravante della recidiva.
Secondo il giudice del merito «gli elementi del caso concreto rendevano la condotta ascritta alla lavoratrice particolarmente grave, stante l'oggettiva portata diffamatoria delle espressioni adottate, che la facevano rientrare nella previsione dell'articolo 225 del contratto collettivo, ovvero l' avere tenuto una condotta non conforme ai civici doveri. Le modalità con cui gli insulti erano stati proferiti, di fronte ad altri dipendenti in relazione ad una richiesta del tutto ragionevole e legittima, rendevano la sanzione adeguata, anche sulla scorta di una recidiva costituita da quattro diversi provvedimenti disciplinari nel biennio che non erano mai stati impugnati».
Per la cassazione della sentenza la lavoratrice licenziata ha proposto ricorso, affidato a due motivi.
Con il primo motivo la ricorrente contesta la ricostruzione dei fatti sposata dalla Corte d'appello e sostiene che le risultanze di causa configurino una normale conversazione confidenziale tra due colleghi.
Con il secondo motivo lamenta violazione e falsa applicazione di norme di diritto nonché del contratto collettivo anche con riferimento all'articolo 2119 del codice civile, dell'articolo 18 della legge 300 del 1970 e degli articoli 225 e 229 del contratto collettivo nazionale di lavoro del terziario e sostiene che «alcuna insubordinazione sarebbe ravvisabile nel comportamento posto in essere, considerato che l'espressione usata non può essere ritenuta al di fuori dei normali civici doveri e pertanto non rientrerebbe nella previsione di cui all'articolo 225 del contratto collettivo, tenuto conto dell'assenza totale di toni irosi, minacciosi o di contrasto, dell'assenza di soggetti esterni all'azienda in grado di percepire l'espressione».
La Corte di Cassazione, chiamata a pronunciarsi, con la citata sentenza n. 5523/2016 ritiene che i due motivi di ricorso non sono fondati.
Sostiene infatti la Suprema Corte che nel caso di specie «la Corte d'appello ha desunto la gravità dell'addebito e la sua idoneità a costituire giusta causa di licenziamento da una serie di circostanze, quali in particolare la gravità dell'insulto rivolto al superiore gerarchico, la sostanziale assenza di giustificazioni in capo alla lavoratrice, che si stava finalmente conformando, alla seconda richiesta, ad adempiere ad una restituzione dovuta, la pronuncia ‹a freddo› delle parole di fronte ad un collega estraneo ad ogni ragione di malanimo ed infine la ricomprensione della fattispecie (non nell'ipotesi dell'insubordinazione di cui all'art. 229 del CCNL, ma) nella condotta prevista come giusta causa dall'art. 225., oltre alla recidiva reiterata formalmente contestata.
Ed infine, sostiene la Corte di Cassazione, che tale valutazione non si pone in contrasto con i consolidati standars valutativi, considerato che già in passato ha affermato che «l'esercizio da parte del lavoratore del diritto di critica delle decisioni aziendali, sebbene sia garantito dagli art. 21 e 39 Costituzione, incontra i limiti della correttezza formale che sono imposti dall'esigenza, anch'essa costituzionalmente garantita (art. 2 Cost.), di tutela della persona umana, sicché, ove tali limiti siano superati, con l'attribuzione all'impresa datoriale od ai suoi rappresentanti di qualità apertamente disonorevoli, di riferimenti volgari e infamanti e di deformazioni tali da suscitare il disprezzo e il dileggio, il comportamento del lavoratore può costituire giusta causa di licenziamento, pur in mancanza degli elementi soggettivi ed oggettivi costitutivi della fattispecie penale della diffamazione» (Corte di Cassazione, sentenza 24.05.2001, n. 7091).
La stessa contrattazione collettiva applicabile inoltre ha ricompreso la condotta non conforme ai civici doveri tra le ipotesi di giusta causa di licenziamento e nel caso la valutazione di gravità è stata corroborata dalla valutazione della recidiva.