Giovani e meno giovano trascorrono tante e troppe ore davanti al pc, è un'abitudine molto diffusa, come sappiamo.
L'utilizzo smodato e incontrollato della rete può essere considerato indicativo di disagio e/o di una condizione patologica grave.
Nel 1995, Ivan Goldberg, uno psichiatra, docente presso la Colombia University di New York, coniava per la prima volta il termine "dipendenza da Internet" o "Internet Addiction Disorder".
Il termine sta ad indicare un'alterazione del comportamento, quando da semplice e comune abitudine, col tempo si trasforma e diviene una ricerca esasperata e incontrollata, accompagnata da stati psichici conseguenziali, quali: irritabilità, aggressività, nervosismo, disturbi del sonno, inappetenza o malnutrizione, alterazioni del vissuto temporale e della cognitività, totalmente indirizzata all'uso compulsivo del mezzo.
Viene classificata come una dimensione complessa, comprensiva di vari fenomeni:
E' un disturbo che procura l'alienazione dalla vita reale, si preferisce quella virtuale. Determina l‘instaurarsi di una situazione patologica, cui seguono disagi a livello psicologico, reazioni sull'ambiente familiare, relazionale, affettivo e lavorativo.
I segnali d'allarme:
Il fenomeno, nemmeno poco diffuso, ha altresì coinvolto la Cassazione, la quale è stata di recente chiamata a pronunciarsi (vedi la sentenza n. 1161 del 20 novembre 2013).
Al ricorrente era stato imputato il reato di detenzione e divulgazione "di un ingente quantitativo di materiale pedopornografico, mediante l'inserimento di link, consentendo agli utenti internet non iscritti al sito di accedere all'area riservata e di scaricare immagini e filmati, tutti di pornografia minorile".
Accertata dai giudici la condotta materiale, il ricorrente assumeva a sua giustificazione la "dipendenza dal computer e da internet" che gli derivava da un disagio esistenziale da cui si era liberato dopo aver conosciuto una donna che aveva sposato".
La dipendenza veniva, peraltro, accertata da perizia medico-legale sull'imputato: il ricorrente risultava affetto da "nevrosi depressiva-Internet Addiction Disorder", senza però alcuna incidenza sulla capacità di intendere e di volere.
Così chiariva la perizia: "la dipendenza da Internet (con ricerca nella rete delle emozioni non trovate nella vita reale) non aveva alcuna incidenza sulle facoltà cognitive, ma solo su quelle volitive. Si trattava di una "forma di condizionamento dei processi volitivi non derivante da una patologia o da un disturbo conclamato chiaramente riconoscibile".
Con la sentenza delle Sezioni Unite del 25.01.2005, n. 9163, la Cassazione ha considerato quanto segue: "anche i disturbi della personalità, che non sempre sono inquadrabili nel ristretto novero delle malattie mentali, possono rientrare nel concetto di infermità", quando siano "di consistenza, intensità e gravità tali da incidere sulla capacità di intendere o di volere, escludendola o scemandola grandemente e, a condizione che sussista un nesso eziologico con la specifica condotta criminosa, per effetto del quale il fatto di reato sia ritenuto causalmente determinato dal disturbo mentale".
Nel caso specifico, ha tuttavia osservato la Corte che non può attribuirsi rilevanza al richiamato "indirizzo ermeneutico -che attribuisce rilevanza ai disturbi della personalità-" quando trattasi di turbamenti psichici e di incidenza sulle relative facoltà mentali, tutti privi del carattere di gravità, per cui nessuna rilevanza è stata riconosciuta alla richiesta di accertamento del vizio parziale di mente: "il vizio parziale di mente non può essere riconosciuto non già perché il disturbo di cui avrebbe sofferto D. non è stato ancora compiutamente classificato," quanto piuttosto "perché l'incidenza dei turbamenti psichici sulle facoltà mentali dell'imputato è priva dei prescritti connotati di gravità".
Per tali motivi, il ricorso è stato rigettato.
Fonte: Sabrina Caporale | Dipendenza dalla rete: quando è vizio parziale di mente. | Studio Cataldi.it