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Mercoledì 28 ottobre 2015

Per il datore che non versa i contributi ai dipendenti condanna civile e penale

a cura di: Studio Legale Mancusi



Il datore di lavoro che omette il versamento dei contributi previdenziali dovuti ai dipendenti, ai sensi dell'articolo 2 del Dl 463/1983, è legittimamente sanzionato due volte, sotto il profilo amministrativo e penale, senza che ciò violi il principio del «ne bis in idem» secondo cui nessuno può essere giudicato o condannato due volte per i medesimi fatti.

E' quanto ha stabilito la Corte di Cassazione, Terza Sezione Penale, con la sentenza del 20 luglio 2015 (udienza 14.01.2015), n. 31378, confermando quanto stabilito dalla Corte di appello di Brescia, con sentenza del 24 giugno 2014, ed altresì precisando che «in tema di omesso versamento contributivo la crisi di liquidità dell'azienda non è da considerarsi causa di esclusione della pena in quanto nella fattispecie criminosa sussiste il dolo generico, costituito dalla consapevolezza del soggetto di omettere il versamento di quanto dovuto».


Avverso la sentenza della Corte di appello l'imputata aveva proposto ricorso per Cassazione eccependo l'illegittimità costituzionale dell'art. 649 cod. proc. pen. per violazione dell'art. 117 Cost. in riferimento all'art. 4 Prot. 7 CEDU. In sostanza la ricorrente rilevava che «essendo stata la stessa già condannata in via definitiva per il medesimo fatto storico al pagamento di una sanzione civile ai sensi dell'art. 116 comma 8 lett. a) della L. 388/2000, sarebbe affetto da illegittimità costituzionale l'art. 649 del codice processuale di rito per contrasto con l'art. 117 Comma 1 Costituzione nella parte in cui non prevede che procedimenti non qualificati formalmente come penali, ma aventi natura sostanzialmente penale possano determinare il proscioglimento dal reato per il principio del «ne bis in idem», secondo cui nessuno può essere condannato o giudicato per i medesimi fatti.

Con un secondo motivo la ricorrente lamenta vizio di motivazione per contraddittorietà e/o illogicità manifesta con specifico riferimento al profilo afferente alla crisi di liquidità dell'azienda ritenuta irrilevante dalla Corte ed alla correlata carenza dell'elemento psicologico del reato (dolo), pur a fronte delle specifiche doglianze formulate sul punto con l'atto di appello.
I giudici Ermellini, con la richiamata sentenza, hanno deciso per il rigetto del ricorso per la manifesta infondatezza dei motivi addotti in quanto per il primo motivo «la sanzione contemplata nell'articolo 116 comma 8 lettera a) della Legge n. 388/200 ha effetti ristoratori verso l'INPS e dunque assume caratteri sostanzialmente, e non solo formalmente, civilistici» e, ancora, che «la collocazione della norma in un complesso legislativo avente quale finalità, secondo l'intitolazione dell'articolo 116 comma 8 lettera a) della L. 388/2000, quella della adozione di misure atte a favorire l'emersione del lavoro irregolare", esclude la natura penale della sanzione».

Quanto al secondo si precisa che «la giurisprudenza di questa Suprema Corte è concorde nell'escludere ogni rilevanza, sotto il profilo soggettivo, alla circostanza che il datore di lavoro stia attraversando una fase di criticità e destini le proprie risorse finanziarie per fare fronte a debiti di altra natura (come, in ipotesi, il pagamento degli emolumenti ai dipendenti) ritenuti più urgenti: ciò in dipendenza del fatto che l'elemento soggettivo richiesto dalla norma incriminatrice è il dolo generico costituito, dalla consapevole scelta da parte del soggetto obbligato di omettere il versamento di quanto dovuto (Corte di Cassazione, sezione terza, sentenza 19.12.2013, n. 3705, e Corte di Cassazione, sentenza 19.1.2011, n. 13100).

Avv. Amilcare Mancusi

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