L'istituto della transazione lavoristica è previsto ma non regolato dall'art. 2113 del codice civile. La legge e la prassi amministrativa richiamano a più riprese le conciliazioni, di cui la transazione può essere un effetto. In via generale la transazione nasce per definizione dall'art. 1965 del c.c. e dal citato art. 2113, nonché dalla procedura di conciliazione prima obbligatoria presso le Direzioni provinciali del lavoro ed ora facoltativa presso le stesse Direzioni e le commissioni di conciliazione recentemente istituite, tra cui di particolare interesse quelle che avranno sede presso gli ordini provinciali dei consulenti del lavoro. In linea generale, sempre secondo il citato art. 2113, occorre far riferimento al principio che afferma che le rinunzie e le transazioni che hanno per oggetto diritti del prestatore di lavoro derivanti da disposizioni inderogabili della legge o della contrattazione collettiva non sono valide. Pertanto tutte le fattispecie che non vengono ricomprese nei sud-detti canoni di inderogabilità, cosiddetti diritti disponibili, possono essere derogate e quindi transatte.
Un primo gruppo di tali diritti ricomprende tutto ciò che, nel trattamento retributivo, va oltre la previsione di legge o di contrattazione collettiva, ad esempio superminimi, premi di produzione, previdenza integrativa e via dicendo; ma un secondo gruppo ricomprende anche tutte le conseguenze di atti volontari o consensuali che pongano termine al rapporto di lavoro o attengano alla sua trasformazione o al suo proseguimento sotto altre condizioni, ad esempio licenziamenti, avanzamenti di carriera, trasferimenti, cessione d'azienda, eccetera. Un ulteriore distinguo viene operato infine dalla dottrina - ma anche dalla giurisprudenza - a proposito dei diritti derivanti da norme inderogabili di legge o dalla contrattazione collettiva a seconda che non siano o siano entrati nel patrimonio giuridico del lavoratore: in questo secondo caso l'eventuale atto transattivo può essere considerato annullabile, ma non nullo e viene consentita la disponibilità degli stessi diritti qualora l'atto dispositivo sia stipulato in una sede in cui il lavoratore sia assistito, in altri termini in sede di conciliazione oppure sindacale, che sono appunto sedi assistite(1). Nella pratica si può verificare che tutta una serie di atti siano oggetto di transazione, oppure di rinuncia, anche se riguardano diritti indisponibili, quali ad esempio possono essere considerati alcuni accordi, specialmente in materia di risarcimenti del danno o per retribuzioni dovute. Tali atti transattivi di diritti indisponibili, però, sempre a norma del citato art. 2113, possono essere impugnati, senza particolarità formali, da parte dell'interessato o da rappresentante legale o sindacale a cui lo stesso abbia conferito mandato, entro il termine di decadenza di sei mesi dalla data di cessazione del rapporto o dalla data della rinuncia o transazione se queste sono avvenute dopo la cessazione del rapporto.
Profili fiscali
Abbiamo parlato sinora di rinunce ed anche di transazioni. Per le prime, che comunque costituiscono un atto unilaterale del soggetto che le opera, trattandosi di proventi che non si conseguono, nulla quaestio in tema di imponibilità sia fiscale che contributiva. Diverso invece per quanto riguarda le transazioni. Queste, sia che intervengano in sede giudiziale o sindacale oppure presso la direzione provinciale del lavoro o le altre sedi di conciliazione che l'evoluzione legislativa consente, sia ancora che riguardino quei diritti indisponibili di cui sopra e non vengano impugnate entro i termini previsti producono effetti rilevanti sia dal punto di vista fiscale che dal punto di vista contributivo. O quanto meno debbono essere valutate con riferimento agli effetti che in questi campi possono produrre, opportuna-mente distinguendo i casi in cui tali effetti si producono o meno e perché.
Innanzi tutto c'è da fare un'importante distinzione tra due tipi di transazione:
a) semplice o interpretativa o conservativa, quando si tratta di agire all'interno di un rapporto riconosciuto come tale e si prospettano modifiche solo quantitative
b) novativa, quando vengono ridiscussi il contenuto e/o la natura dell'intero rapporto, cosicché dalla transazione questo rapporto esce qualitativamente diverso e si sostituisce al precedente.
La distinzione è importante perché si è sostenuto in passato - e per la verità ciò era corroborato dalla lettera della legge - che le transazioni novative fossero escluse dalla tassazione e, per riflesso, dall'assoggettamento contributivo. In effetti la legge faceva riferimento ai compensi percepiti in dipendenza del rapporto di lavoro, concetto che escludeva le somme erogate per prevenire o cessare le controversie, mentre ricomprendeva quelle connesse alla risoluzione del rapporto di lavoro da assoggettarsi a tassazione separata. Invece la nuova formulazione del TUIR, che parla di somme percepite in relazione al rapporto di lavoro, fa giustizia della precedente impostazione, considerando nell'ambito dell'assoggettabilità anche le somme previste dalle transazioni novative. Esplicita in questo senso la posizione dell'Amministrazione finanziaria con circolare n. 326/1997.
Altrettanto importante è una distinzione da fare in ordine alla natura della corresponsione, se cioè questa venga erogata:
a) in sostituzione o in risarcimento di una mancata percezione di redditi di lavoro a cui si aveva diritto e in questo caso si parla di lucro cessante;
b) oppure se si tratti di reintegrazione patrimoniale per danni subiti o indennizzi per spese sostenute ed in questo caso si tratta di danno emergente.
Ambedue le fattispecie ricorrono con frequenza, nel primo caso per la rivendicazione di diritti connessi alla retribuzione, all'inquadramento, allo svolgimento del lavoro; nel secondo per l'insorgere di contestazioni relative a danni subiti, che possono essere di diversa natura e che investono spesso la sfera personale del lavoratore, come ad esempio il mobbing, il danno biologico o quello esistenziale.
Proprio questa seconda distinzione è rilevante ai fini dell'assoggettabilità a tassazione delle somme percepite dal lavoratore a seguito di transazione. Infatti l'art. 6, comma 2 del TUIR prevede che costituisca-no redditi della stessa categoria di quelli sostituiti o perduti i proventi e le indennità conseguite, anche in forma assicurativa, compresi gli interessi moratori o per dilazione, a titolo di risarcimento dei danni, con esclusione di quelli dipendenti da invalidità permanente o morte. Pertanto in ogni ipotesi di percezione di redditi in sostituzione o per risarcimento e quindi per lucro cessante, tali redditi saranno attratti a tassazione secondo le regole ordinarie, a nulla rilevando che nei verbali di conciliazione, in particolar modo quelli stesi in sede sindacale, venga eventualmente utilizzata una clausola secondo cui si tratta di somma pagate a titolo di risarcimento del danno, mentre è chiaro l'intento sostitutivo della perdita di redditi(2). Diversamente in ipotesi di danno emergente, poiché si tratta di far fronte ad una riparazione per danni patrimoniali subiti per effetto di controversie o altri fatti in conseguenza di lavoro, le somme corrisposte per indennizzare non rientrano nella base imponibile. Va da sé che il confine è labile e non sempre è possibile tracciare una linea di discrimine netta.
Un'ulteriore questione riguarda se le somme derivanti da transazioni relative ad anni precedenti possano o debbano essere assoggettate a tassazione ordinaria oppure separata. Ai sensi dell'art. 17, 1°comma, lett. a) e b) del TUIR devono essere assoggettate a tassazione separata:
a) oltre al TFR le somme percepite una volta tanto in dipendenza della cessazione del rapporto e quindi anche quelle transattive che riguardino detta cessazione;
b) le somme percepite ad altro titolo, anche per effetto della transazione e anche in caso di sentenza del giudice del lavoro, se riferibili ad anni precedenti, ovviamente nell'ipotesi di lucro cessante e non di danno emergente.
Le imposte relative vengono liquidate ordinariamente dal sostituto d'imposta con l'applicazione dell'aliquota corrispondente alla metà del reddito complessivo medio del biennio precedente, ma, co-me avviene per il trattamento di fine rapporto, l'ufficio provvede ad iscrivere a ruolo le maggiori imposte oppure, nel caso in cui l'ipotesi risulti più favorevole per il contribuente, a far concorrere i redditi stessi alla formazione del reddito complessivo nell'anno in cui sono percepiti.
Profili contributivi
Partiamo innanzi tutto da una identificazione: per effetto della legge 153/1969, come modificata dal d.lgs 314/97, sono considerati redditi di lavoro di-pendente ai fini contributivi quelli indicati dall'art. 49 [ex art. 46] primo comma del TUIR, ossia i redditi percepiti nel periodo di riferimento per prestazioni di lavoro alle dipendenze e sotto la direzione di altri. Come per gli effetti fiscali, il concetto di retribuzione è ampio perché comprende qualsiasi compenso erogato al dipendente, sotto qualsiasi forma, anche in natura ivi compresi i fringe benefit o con prestazioni sostitutive anche di terzi, purché sia in relazione - e non potrebbe essere altrimenti - non al lavoro prestato, ma alla condizione di lavoratore dipendente. L'unica differenza sta nel fatto che dell'imponibile fiscale non fa parte la quota contributiva a carico del lavoratore.
Questo però il principio generale. All'interno bisogna operare alcuni distinguo ed esclusioni. Se dal punto di vista tributario l'obbligo del versamento della ritenuta fiscale scatta in relazione alla corresponsione degli emolumenti, dal punto di vista contributivo il periodo di riferimento risale alla maturazione dell'emolumento stesso. La ragione è intuitiva: se è vero che, nella particolare fattispecie dei redditi da lavoro dipendente o autonomo che sia, non possono essere assoggettabili a tassazione importi reddituali non percepiti e fino che non siano percepiti, altrettanto valido deve essere considerato il principio secondo cui il lavoratore, in questo caso dipendente, ha diritto comunque alla continuità della propria posizione previdenziale - non caso definita obbligatoria - in costanza e anche in risoluzione di rapporto, anche nell'ipotesi in cui le proprie spettanze tardino ad essere liquidate.
Ci sono alcune esclusioni: una prima generale riguarda le somme corrisposte a titolo di trattamento di fine rapporto e quelle corrisposte in occasione della cessazione del rapporto di lavoro al fine di incentivare l'esodo dei lavoratori. Nel caso del TFR siamo nel campo della cessazione naturale del rapporto di lavoro, sia che questa avvenga per quiescenza, oppure licenziamento, oppure dimissioni, oppure anche per termine di lavoro a tempo determinato o di mancato superamento del periodo di prova. Nel caso degli incentivi all'esodo, invece, si tratta pur sempre di un accordo che interviene tra datore di lavoro e lavoratore, che non ha natura di transazione [semmai di rinuncia] e che per legge assume un trattamento previdenziale, oltre che fiscale, analogo a quello del TFR, cioè nessuna contribuzione. Non è riservato invece lo stesso trattamento all'indennità sostitutiva del preavviso, che conserva natura retributiva ed è quindi imponibile sia ai fini contributivi che ai fini fiscali, ma a tassazione separata.
Sono infine escluse dall'assoggettamento contributivo le indennità conseguite a titolo di risarcimento danni, che non siano collegate alla funzione remunerativa della prestazione lavorativa e riguardino il reintegro patrimoniale di perdite subite dal lavoratore in dipendenza dal rapporto di lavoro. Rientrano in questa casistica le indennità liquidate dal giudice a titolo di risarcimento in caso di reintegro sul posto di lavoro e quelle, fino ad un massimo di 14 mensilità, corrisposte al lavoratore nei casi in cui risulti accertato che non ricorrono gli estremi della giusta causa o del giustificato motivo, senza che sia intervenuta la riassunzione entro il termine di tre giorni.
Tuttavia la questione non sempre è stata pacifica. In passato, sia per effetto della legge [art. 1965, 2° comma del codice civile e art. 12 della Legge 153/1969] che di alcune sentenze della Cassazione, analogamente a ciò che avviene in campo fiscale, la cosiddetta transazione novativa, quella che cioè dava luogo ad una nuova e diversa sistemazione di interessi tra le parti, non poteva "essere considerata ai fini contributivi come corrisposta in dipendenza del rapporto di lavoro, essendo tale rapporto sparito nel momento della conclusione della transazione novativa"(3). L'interpretazione "negazionista" agli effetti contributivi ha peraltro resistito anche dopo il revirement che si era verificato ai fini fiscali con la citata novella del 2 settembre 1997 [d.lgs n. 314], in cui modificando l'art. 51, ex art. 48 del TUIR, si dispone che "il reddito da lavoro dipendente è costituito da tutte le somme e i valori in genere, a qualunque titolo percepiti nel periodo d'imposta, anche sotto forma di erogazioni liberali, in relazione al rapporto di lavoro"; questione che anche l'Inps considerata superata per effetto dello stesso decreto legislativo che riformula, venendosi così a riallineare l'imponibile contributivo con quello fiscale secondo la definizione del TUIR. Per quanto riguarda invece la giurisprudenza, le più recenti sentenze della Cassazione mantengono cautele, anzi diciamo che permane una vivace polemica, poiché si richiede che per l'assoggettamento contributivo delle somme erogate in base a transazione novativa si debba verificare che esista un collegamento diretto tra le somme concordate in sede di novazione ed il rapporto di lavoro pregresso e che pertanto non vengano corrisposte in base ad un titolo autonomo rispetto a questo. E su tali posizioni restiamo, per il diletto dei giuristi.
Pubblicato sul n. 13/2011 della rivista Consulenza Buffetti.
Note:
(1) Per un'efficace sintesi in proposito si veda FRANCESCO ROTONDI: "Diritti disponibili nel rapporto di lavoro" in Diritto e Pratica del Lavoro n. 38/2006
(2) In proposito una ferma presa di posizione del SECIT nella relazione sull'attività svolta nel 1991
(3) Cassazione Sezione Lavoro, sent. n. 4811 del 18 maggio 1999