-
Risoluzione Agenzia Entrate n. 89 del 12.06.2001
-
Deducibilità delle sanzioni comminate dall'Autorità garante della concorrenza e del mercato
Risoluzione Agenzia Entrate n. 89 del 12.06.2001A seguito delle sanzioni irrogate dall'Autorità garante della concorrenza e del mercato, ai sensi dell'articolo 15 della legge 10 ottobre 1990, n. 287, la società EX S.p.A. e l'Unione YP hanno sollecitato il parere della scrivente in ordine al trattamento, ai fini della determinazione del reddito d'impresa, delle somme versate.
E' stato chiesto, inoltre, di conoscere, in presenza di dichiarazione conforme alle indicazioni dell'Amministrazione finanziaria, le modalità per poter procedere al recupero delle maggiori imposte versate qualora non si condivida l'orientamento espresso.
Al riguardo si formulano le seguenti osservazioni.1. Deducibilità delle sanzioni antitrust
Occorre preliminarmente inquadrare la fattispecie nell'ambito della normativa di riferimento.
La norma recata dall'art. 15 della legge 10 ottobre 1990, n. 287, dispone che
"1. Se a seguito dell'istruttoria di cui all'art. 14 l'Autorità ravvisa infrazioni agli artt. 2 o 3 (nota 1), fissa alle imprese e agli enti interessati il termine per l'eliminazione delle infrazioni stesse. Nei casi di infrazioni gravi, tenuto conto della gravità e della durata dell'infrazione, dispone inoltre l'applicazione di una sanzione amministrativa pecuniaria fino al dieci per cento del fatturato realizzato in ciascuna impresa o ente nell'ultimo esercizio chiuso anteriormente alla notificazione della diffida (relativamente ai prodotti oggetto dell'intesa o dell'abuso di posizione dominante), determinando i termini entro i quali l'impresa deve procedere al pagamento della sanzione (nota 2).
2. In caso di inottemperanza alla diffida di cui al comma 1, l'Autorità applica la sanzione amministrativa pecuniaria fino al dieci per cento del fatturato ovvero, nei casi in cui sia stata applicata la sanzione di cui al comma 1, di importo minimo non inferiore al doppio della sanzione già applicata con un limite massimo del dieci per cento del fatturato come individuato al comma 1, determinando altresì il termine entro il quale il pagamento della sanzione deve essere effettuato. Nei casi di reiterata inottemperanza l'Autorità può disporre la sospensione dell'attività d'impresa fino a trenta giorni".
Il meccanismo sanzionatorio delineato dall'articolo in esame è improntato ad un criterio di progressione temporale, volto ad ottenere la desistenza dal comportamento vietato attraverso diffide e sanzioni che, nei casi di reiterata inottemperanza, possono arrivare alla sospensione dell'attività di impresa fino a trenta giorni.
Va, inoltre, sottolineato che, nei casi di infrazioni gravi, la condotta collusiva o abusiva è sanzionabile indipendentemente dalla circostanza che sia stata preventivamente esperita la diffida e che a questa non si sia ottemperato (il che costituisce una ulteriore fattispecie di illecito).1.1 Posizione dell'Amministrazione finanziaria
In relazione al tema specifico del trattamento tributario delle sanzioni antitrust, l'Amministrazione finanziaria ha affermato la loro indeducibilità con la circolare 98/E del 17 maggio 2000, paragrafo 9.2.6, "in quanto trattasi di oneri non inerenti all'attività di impresa.
L'irrogazione della sanzione è infatti una conseguenza del comportamento illecito tenuto dal contribuente".1.2 Posizione della Giurisprudenza
La tesi dell'Amministrazione finanziaria riprende sostanzialmente l'orientamento della giurisprudenza, che ha sempre escluso la deducibilità dal reddito delle sanzioni in quanto le stesse sarebbero conseguenza del comportamento illecito del contribuente.
In tal senso:
- la Commissione Tributaria Centrale, con decisione n. 1763 del 4 luglio 1983, ha affermato l'assoluta indeducibilità "delle sanzioni pecuniarie pagate in conseguenza di illeciti accertati dai competenti organi di polizia, qualunque sia la causa che abbia potuto indurre il contribuente a disattendere norme giuridiche il cui valore sovrasta per motivi di sicurezza e ordine sociale i fini di maggiore redditività che si propone il contribuente";
- la stessa Commissione, con decisione n. 784 del 21 marzo 1994, ha escluso la deducibilità di ammende pagate da una società di costruzioni al Comune per la sanatoria di opere abusive, in forza della "natura concettuale della sanzione, che ... costituisce soltanto una imposizione relativa alla trasgressione di norme penali, civili ed amministrative ... e non può quindi paradossalmente ricondursi ad un comportamento incrementativo della situazione patrimoniale, ma soltanto ad un rimedio di una condizione giuridicamente patologica";
- la Corte di Cassazione, con sentenza n. 7071 del 29 maggio 2000, dopo aver affermato che di massima un costo può essere considerato deducibile dal reddito d'impresa "solo se ed in quanto risulti funzionale alla produzione del reddito", ha escluso la riscontrabilità di detto rapporto di correlazione tra costo e reddito "in linea di principio, con riferimento a quei costi che siano rappresentati dal pagamento di sanzioni pecuniarie irrogate per punire comportamenti illeciti del contribuente, quali sono indiscutibilmente le infrazioni alle norme sulla circolazione stradale"; perciò, i costi in argomento devono essere considerati sempre e comunque indeducibili.
Solo recentemente, con la sentenza n. 370 del 4 aprile 2001, la Commissione Tributaria Provinciale di Milano ha assunto un orientamento favorevole alla deducibilità, in relazione al caso specifico delle sanzioni antitrust, accogliendo il ricorso del contribuente contro il silenzio rifiuto sulla richiesta di rimborso, presentata ai sensi dell'art. 38 del DPR n. 602 del 1973.
Afferma la Commissione che la tesi dell'indeducibilità delle sanzioni, in quanto conseguenza del comportamento antigiuridico del contribuente, non può valere nel caso di illeciti compiuti, in veste di imprenditore, per la violazione di norme che regolano l'esercizio dell'impresa; pertanto, il giudice di prime cure ricostruisce le sanzioni in questione in termini di inerenza, distinguendo tra illeciti attinenti la sfera personale dell'imprenditore e costi direttamente riferibili alla gestione d'impresa e, quindi, distinguendo tra sanzioni afflittive, che in quanto tali non possono che gravare unicamente sul soggetto trasgressore (per le quali "è fondatamente presumibile ritenere insussistente un vincolo di inerenza con l'attività di impresa"), e sanzioni amministrative, che perseguono la finalità di ripristinare l'equilibrio economico violato per effetto di comportamenti ritenuti lesivi della libera concorrenza. Ciò anche in considerazione del fatto che lo stesso meccanismo di determinazione delle sanzioni, quantificate in misura percentuale rispetto al fatturato del trasgressore, ne delinea il collegamento funzionale con le scelte imprenditoriali del soggetto sanzionato.
In conclusione, secondo la Commissione, poiché gli oneri sostenuti dall'imprenditore risultano inevitabili con riferimento alle scelte adottate nell'esercizio della propria attività, deve concludersi che "la rilevanza ai fini impositivi delle sanzioni antitrust, come componente negativo di reddito, trova la propria giustificazione nel principio di inerenza, essendo gli oneri derivanti dalle infrazioni in esame una diretta conseguenza delle scelte imprenditoriali effettuate".1.3 Posizione della Dottrina
Il ragionamento seguito dalla Commissione Tributaria Provinciale di Milano recepisce in buona sostanza le argomentazioni espresse da una parte della dottrina a sostegno della deducibilità delle sanzioni antitrust, come di seguito sintetizzate.
a) Peculiarità delle sanzioni antitrust
Le sanzioni antitrust presentano caratteri peculiari che le distinguono dagli altri tipi di sanzioni e, pertanto, ne consentono la deducibilità.
Ed infatti, in primo luogo, in deroga ai principi dettati dalla legge 24 novembre 1981, n. 689, le sanzioni antitrust sono irrogate direttamente nei confronti dell'impresa e non della persona fisica autore materiale della trasgressione.
In secondo luogo le stesse non sono determinate in modo assoluto, ma commisurate al fatturato dell'impresa.
b) Natura delle sanzioni antitrust - art. 148 della legge n. 388 del 2000
Si afferma la natura risarcitoria delle sanzioni antitrust in quanto, in primo luogo, la natura afflittiva contrasterebbe con il principio di determinatezza; in secondo luogo, le stesse sono irrogate in funzione della gravità e della durata della violazione e sono determinate in misura percentuale del fatturato conseguito dall'impresa.
Si tratta, tuttavia, non della reintegrazione specifica di un danno patrimoniale subito da una persona determinata, bensì di un procedimento genericamente ablatorio teso a ripristinare l'equilibrio di mercato leso dal comportamento scorretto.
Tale argomento sarebbe confermato anche dalla recente previsione di cui all'art. 148 della legge 23 dicembre 2000, n. 388 (Finanziaria per il 2001), in base al quale " Le entrate derivanti dalle sanzioni amministrative irrogate dall'Autorità garante della concorrenza e del mercato sono destinate ad iniziative a vantaggio dei consumatori" (nota 3).
Non manca, tuttavia, chi, pur affermando la deducibilità delle sanzioni in questione, nega la loro natura risarcitoria rilevando che tali sanzioni sono espressamente qualificate dall'art. 31 della legge n. 287 del 1990 come "sanzioni amministrative pecuniarie...- per le quali - si osservano, in quanto applicabili, le disposizioni contenute nel capo I, sezioni I e II, della legge 24 novembre 1981, n. 689".
Secondo tali autori si tratterebbe, quindi, di una misura afflittiva patrimoniale di tipo ablatorio, con generica funzione preventiva, volta a tutelare l'interesse generale alla libertà del mercato.
c) Principio dell'inerenza (art. 75, comma 5, TUIR).
Con riguardo alle sanzioni con finalità risarcitoria, alcuni autori hanno affermato, anche alla luce delle interpretazioni ministeriali intervenute sul concetto di inerenza, che sussisterebbe il requisito dell'inerenza all'attività di impresa ogniqualvolta l'illecito sia funzionale al conseguimento di ricavi. Tale funzionalità potrebbe ravvisarsi nella possibilità di porsi sul mercato in posizione preferenziale rispetto ai concorrenti, traendone, quindi, maggior profitto sotto forma di maggiori ricavi.
L'argomento è stato esaminato con riguardo alle diverse tipologie di sanzioni e si è affermato che nell'attività anticoncorrenziale illecita la violazione è talmente connaturata all'esercizio dell'impresa da comportare l'irrogazione della sanzione direttamente ed unicamente nei confronti dell'imprenditore, che risponde a titolo di responsabilità per fatto proprio. L'inerenza è, pertanto, in re ipsa.
d) Commisurazione della sanzione al fatturato
Avuto riguardo al criterio di determinazione della sanzione antitrust che, come ricordato, viene commisurata al fatturato, il presupposto della irrogazione è stato ravvisato nell'indebito vantaggio economico conseguito dall'impresa per effetto dell'attività anticoncorrenziale, ossia nell'incremento di ricavi, ovviamente concorrenti alla formazione del reddito, che l'intervento dell'Autorità intende neutralizzare. Non consentire la deducibilità della sanzione equivarrebbe, pertanto, a tassare ricavi inesistenti in quanto azzerati dall'Autorità, ossia un non reddito, con violazione del principio di capacità contributiva e duplicazione dell'effetto punitivo.
La sanzione, secondo tale tesi, esprime e delimita la reazione punitiva dell'ordinamento al comportamento antigiuridico, escludendo la possibilità di introdurre, in assenza di norme espresse, effetti ultronei.1.4 Riflessioni
Le tesi fin qui prospettate sollecitano le seguenti considerazioni.
a) Peculiarità delle sanzioni antitrust
Si è detto che le sanzioni antitrust si differenziano dalle altre sanzioni in quanto misure punitive adottate direttamente nei confronti dell'impresa e non della persona fisica autore materiale della violazione.
In realtà, come meglio illustrato in seguito, ai fini della determinazione della sanzione antitrust si tiene conto anche di dati, circostanze e comportamenti riferibili al soggetto trasgressore.
L'art. 31 della citata legge n. 287 del 1990, infatti, fa espresso rinvio alle disposizioni della legge 24 novembre 1981, n. 689, inducendo l'Autorità a determinare le sanzioni sulla base, oltre che della gravità delle violazioni, delle condizioni economiche delle imprese, nonché delle iniziative volte alla eliminazione ed alla attenuazione delle conseguenze delle violazioni.
A ciò si aggiunga che le sanzioni non sono determinate nel massimo in valore assoluto, ma assumono un'entità variabile, commisurata al fatturato dell'impresa. Tale criterio di determinazione, che prescinde dal vantaggio economico conseguito dal trasgressore, è stato recepito nel sistema normativo (soprattutto dopo le recenti modifiche recate dall'art. 11 della legge n. 57 del 2001 all'art. 15 della legge n. 287 del 1990) in funzione della rilevanza indotta dagli aspetti soggettivi e dimensionali dell'impresa.
b) Commisurazione della sanzione al fatturato
L'affermazione, basata peraltro sulla vecchia formulazione dell'art. 15 della legge n. 287 del 1990, secondo cui la finalità della sanzione antitrust sarebbe rinvenibile nella eliminazione del vantaggio indebitamente conseguito dall'impresa mediante la condotta anticoncorrenziale, non è condivisibile.
Ed invero l'Autorità Antitrust, nel determinare la sanzione, non procede alla individuazione e quantificazione del danno, ma ne commisura l'importo ad una percentuale del fatturato realizzato nell'ultimo esercizio chiuso anteriormente alla notificazione della diffida. Non sussiste, quindi, alcun collegamento con gli effettivi ricavi realizzati in conseguenza della pratica anticoncorrenziale. Ciò appare ancora più evidente nei casi di dumping o di vendite sotto costo e in altri comportamenti similari, pure sanzionabili come lesivi della concorrenza, in relazione ai quali i maggiori ricavi sono del tutto eventuali e spesso conseguibili solamente nel lungo periodo; in presenza di un tempestivo intervento dell'Autorità, gli stessi potrebbero addirittura non realizzarsi affatto.
In altre ipotesi l'applicazione della sanzione prescinde anche dall'effettiva lesione della concorrenza: in presenza di talune intese commerciali, ad esempio, l'Autorità interviene in via preventiva attribuendo rilevanza alla potenzialità dei comportamenti e alla loro idoneità a determinare la lesione. La Corte di Giustizia CE ha recentemente affermato che "una pratica concordata rientra nell'art. 81.1 anche in mancanza di effetti anticoncorrenziali sul mercato. ... le pratiche concordate sono vietate, indipendentemente dai loro effetti, qualora abbiano un oggetto anticoncorrenziale" (nota 4).
Lo stesso principio è stato ribadito dalla giurisprudenza amministrativa in materia di concorrenza, che considera "sufficiente, ai fini probatori, anche soltanto la capacità potenziale dell'accordo o della pratica concordata di restringere la concorrenza nel mercato, in quanto riscontri concreti delle effettive conseguenze prodottesi sono necessari soltanto nella diversa e distinta ipotesi dell'abuso di posizione dominante" (nota 5).
In definitiva, il criterio di determinazione della sanzione in misura percentuale del fatturato consente all'Autorità di graduare la sanzione in relazione al soggetto giuridico che ha posto in essere il comportamento lesivo della concorrenza. Ciò configura, in altri termini, una "personalizzazione" della sanzione, indotta dal riferimento alle dimensioni dell'impresa, al fatturato conseguito e, quindi, all'effettiva capacità della stessa a sopportare l'onere sanzionatorio che, ove determinato, per converso, in misura fissa, potrebbe risultare inadeguato allo scopo.
Alla luce di tali considerazioni, traspare in modo evidente la reale funzione della sanzione antitrust, quale misura volta ad ottenere la desistenza dal comportamento vietato più che la reintegrazione. Ciò induce l'Autorità Antitrust, ai fini della determinazione della sanzione, a valutare anche il comportamento tenuto dall'impresa nel corso del procedimento, pervenendo a volte, pur in presenza della medesima violazione, ad applicare sanzioni diverse in relazione al diverso grado di collaborazione ovvero al comportamento recidivo, fino a decretare, inoltre, come extrema ratio, la sospensione fino a trenta giorni dell'attività di impresa, in caso di reiterazione dell'inottemperanza.
Le considerazioni fin qui svolte, già valide sotto la precedente formulazione dell'art. 15, comma 1, della legge n. 287 del 1990, allorché la sanzione era determinata in proporzione al fatturato specifico, relativo ai prodotti oggetto della pratica anticoncorrenziale, a maggior ragione lo sono oggi, dacché il riferimento al predetto parametro è venuto meno.
c) Natura delle sanzioni antitrust - art. 148 della legge n. 388 del 2000
Un ulteriore argomento a sostegno della natura risarcitoria delle sanzioni antitrust è stato ravvisato dalla dottrina nella previsione di cui all'art. 148 della legge n. 388 del 2000, in base alla quale le entrate derivanti dalle stesse sanzioni antitrust sono destinate ad iniziative a vantaggio dei consumatori.
Tale affermazione non appare condivisibile.
Ed invero la norma in esame ha inteso supplire alla carenza di tutela del consumatore finale, che, a differenza delle altre categorie di soggetti incisi dalla attività anticoncorrenziale -ossia i concorrenti in senso stretto e i fornitori-, subisce un danno da "sovrapprezzo" di difficile accertamento. Trattandosi di danno che investe una miriade di soggetti, si è inteso impedire una moltiplicazione di iniziative giudiziarie ma soprattutto ovviare all'inconveniente, ancora più grave, che, a forza di liquidazioni equitative o approssimate per eccesso in nome di un malinteso garantismo, l'impresa, gravata dell'obbligo risarcitorio, venisse penalizzata ben al di là delle sue "colpe".
Come prima evidenziato, le sanzioni antitrust colpiscono anche le vendite sotto costo nelle quali non si riscontra alcun danno diretto nei confronti dei consumatori.
A conferma della natura afflittiva e non risarcitoria della sanzione si richiama una recente sentenza del Consiglio di Stato, sezione VI, del 20 marzo 2001, n. 1671. Nella specie, alcune imprese, già assoggettate a sanzione dall'Antitrust, lamentavano la mancata estensione dell'intervento punitivo ad imprese concorrenti, nel presupposto che l'auspicato intervento avrebbe comportato un'attenuazione della sanzione irrogata nei loro confronti. Al riguardo, l'organo giurisdizionale ha affermato che "la pena pecuniaria per l'illecito anticoncorrenziale non ha natura di misura patrimoniale civilistica, da porsi solidalmente a carico di tutti i coautori dell'illecito, o da dividersi tra gli stessi, bensì di sanzione amministrativa con connotati punitivi (affini a quelli della sanzione penale), sicché si applica individualmente e per intero a ciascuno degli autori dell'illecito, e viene commisurata alle condizioni oggettive e soggettive di ciascuno, a prescindere da ogni considerazione in ordine a quelle degli altri e da ogni logica di riduzione della misura per ognuno in funzione del maggior numero di autori".
Tale sentenza sembra fugare ogni dubbio circa la natura tipicamente affittiva delle sanzioni in argomento.
d) Inerenza delle sanzioni antitrust
Alla luce delle considerazioni formulate, confermata la natura sostanzialmente afflittiva delle sanzioni antitrust, il problema della loro deducibilità si pone, in sostanza, negli stessi termini delle altre sanzioni riferibili all'impresa (fra cui le sanzioni irrogate dalla Consob per violazione di norme che regolano l'esercizio dell'impresa, le sanzioni per danno ambientale, ecc...).
Secondo il costante orientamento della giurisprudenza di legittimità, con riferimento alle sanzioni afflittive non si pone un problema di inerenza in quanto, come affermato dalla Cassazione, nella già citata sentenza n. 7071 del 29 maggio 2000, la "riscontrabilità del...rapporto di correlazione fra costo e reddito va senz'altro esclusa, in linea di principio, con riferimento a quei costi che siano rappresentati dal pagamento di sanzioni pecuniarie irrogate per punire comportamenti illeciti del contribuente".
In conclusione le sanzioni antitrust svolgono una funzione repressiva e preventiva che risulterebbe svilita qualora fosse riconosciuta la loro deducibilità nella determinazione del reddito d'impresa.
Per quanto sopra esposto, la scrivente, confermando l'orientamento già espresso con la circolare n. 98/E del 17 maggio 2000, ritiene che le sanzioni in argomento non siano inerenti all'attività d'impresa e, pertanto, siano indeducibili nella determinazione del reddito d'impresa.
Osserva, infine, in relazione ad un ulteriore quesito in materia, che, allo stato della normativa vigente ed in considerazione del risalente indirizzo giurisprudenziale, nonché della inequivoca prassi amministrativa, non possa configurarsi l'ipotesi disciplinata dall'art. 6, comma 2, del d.lgs. 18 dicembre, n. 472, che prevede, tra le cause di non punibilità, le obiettive condizioni di incertezza sulla portata e sull'ambito di applicazione della legge.2 Modalità e termini per la richiesta di rimborso
Nell'eventualità che i contribuenti intendano uniformarsi, in sede di dichiarazione, all'indirizzo interpretativo dell'Amministrazione, gli stessi chiedono di conoscere quali iniziative assumere per tutelare le proprie ragioni in sede giurisdizionale.
In particolare, si domanda se si renda applicabile al caso concreto la procedura di rimborso di cui all'art. 38 del DPR n. 602 del 1973 e, in caso affermativo, quali siano i termini per la presentazione della relativa istanza.
In merito all'ambito operativo della norma recata dal citato art. 38, le Sezioni Unite della Cassazione, con sentenza 9 giugno 1989, n. 2786, hanno affermato che essa "si riferisce a qualsiasi ipotesi d'indebito correlato all'adempimento dell'obbligazione tributaria... qualunque sia la ragione per cui il versamento è in tutto o in parte indebito", aggiungendo che "il rimedio previsto dall'art. 38 D.P.R. n. 602 è imposto in maniera indifferenziata in tutti i casi di ripetibilità del versato, tanto se riguardanti le operazioni di versamento... quanto se afferenti al fondamento dell'obbligazione tributaria".
Dalla pronuncia emerge ancora che il diritto al rimborso viene meno se si siano verificate preclusioni di natura processuale ovvero concernenti la contestazione del debito tributario.
In attuazione degli enunciati principi, le Sezioni Unite hanno sostenuto, sotto l'aspetto che qui interessa, che il contribuente, nella fattispecie concreta titolare di reddito di lavoro autonomo, dopo aver versato in autotassazione l'ILOR in relazione all'anno d'imposta 1976, avrebbe potuto chiederne il rimborso nei termini di decadenza di cui all'articolo 38 citato, assumendo che non fosse dovuta per illegittimità costituzionale l'imposta autoliquidata in dichiarazione e versata in adempimento degli obblighi normativi, in quel momento vigenti, sebbene fondati su "legge apparente" perché successivamente dichiarata incostituzionale con sentenza n. 42 del 26 marzo 1980.
Questa interpretazione è stata costantemente seguita dalla giurisprudenza successiva. Fra le tante sentenze si richiamano Cass. n. 3002/89, n. 3242/94, n. 5756/94, n. 11302/96, n. 7/97, n. 20/97, n. 411/97, n. 11276/97, n. 262/97, n. 8191/98.
Nell'ultima pronuncia, in particolare, è stato precisato che la procedura ed i termini di decadenza di cui all'articolo 38 più volte citato si applicano anche in caso di erroneo assoggettamento a tassazione in sede di dichiarazione annuale da parte di soggetti esenti da tributi.
Alla luce delle inequivoche pronunce della Suprema Corte si ritiene, pertanto, che i contribuenti interessati possano essere ammessi, nel caso di specie, a presentare le istanze di rimborso ai sensi dell'art. 38 del DPR n. 602 del 1973.
Invero non sussistono validi motivi perché gli Uffici locali dell'Agenzia non debbano uniformare il loro comportamento alle richiamate pronunce giurisprudenziali.
E' opportuno evidenziare, infine, che la Suprema Corte, con particolare riguardo alla possibilità di emendare una dichiarazione fiscale oltre i termini entro cui le norme consentono di presentare una dichiarazione integrativa, introducendo circostanze di fatto omesse oppure correggendo elementi prima esposti in modo difforme rispetto al reale, ha assunto orientamenti contrastanti.
Al fine di risolvere tale contrasto la sezione tributaria della Corte di cassazione, con ordinanza 7 dicembre 2000 - 30 gennaio 2001, n. 78, ha chiesto un pronunciamento delle sezioni unite, sottoponendo il caso, per vero diverso da quello in questione, di un contribuente che aveva presentato istanza di rimborso delle maggiori imposte versate in conseguenza della mancata considerazione, in sede di dichiarazione dei redditi, dell'indennità per perdita di avviamento pagata ad un inquilino.
E' superfluo evidenziare la necessità di un riesame dell'indirizzo operativo seguito dagli Uffici qualora, dalla pronuncia delle Sezioni Unite della Cassazione, dovesse trovare conferma un diverso indirizzo interpretativo.
Con riferimento ai termini di presentazione dell'istanza di rimborso va ricordato preliminarmente che il termine di decadenza previsto dal comma 1 dell'articolo 38 del D.P.R. n. 602 del 1973, come modificato dalla legge 13 maggio 1999, n. 133, articolo 1, comma 5, è di quarantotto mesi a decorrere dalla data del versamento diretto ritenuto, in tutto o in parte, indebito per non esatta applicazione della legge d'imposta in sede di dichiarazione.
E' stato chiesto se sia possibile, senza incorrere nell'irrogazione di sanzioni, presentare l'istanza di rimborso in pendenza dei termini di presentazione della dichiarazione integrativa disciplinata dall'art. 2,comma 8, del DPR 22 luglio 1998, n. 322, ossia entro novanta giorni dalla scadenza del termine di presentazione della dichiarazione originaria.
Al riguardo si ritiene che non sussista alcuna preclusione di ordine temporale né che l'ipotizzato comportamento possa dar luogo all'applicazione di sanzioni tributarie.
Ed invero, con la dichiarazione integrativa il contribuente produce direttamente una nuova dichiarazione sostitutiva di quella precedentemente presentata, con la conseguenza che, in presenza di un eventuale profilo di infedeltà della dichiarazione rettificativa, gli uffici dovranno emettere l'avviso di accertamento. Al contrario, il ricorso alla procedura di cui all'articolo 38 del D.P.R. n. 602 del 1973, benché ispirato dallo stesso intendimento di correggere un precedente comportamento ritenuto non conforme ad una corretta interpretazione della legge, non consente di modificare direttamente il contenuto della dichiarazione, rimettendo invece all'Amministrazione finanziaria la decisione su una domanda di restituzione di imposte versate, nel caso di specie, in adempimento delle non condivise indicazioni dell'Amministrazione stessa.
Con riferimento, infine, all'individuazione dell'Ufficio competente a ricevere l'istanza di rimborso di cui al comma 1 dell'art. 38 del DPR n. 602 del 1973, si precisa che la stessa dovrà essere presentata presso l'Ufficio locale territorialmente competente in ragione del domicilio fiscale del soggetto richiedente oppure, se non ancora attivato, presso la corrispondente sezione staccata provinciale della Direzione regionale di questa Agenzia.
Per effetto dell'abrogazione dell'articolo 40 del D.P.R. 27 marzo 1992, n. 287, concernente l'attività dei centri di servizio delle imposte dirette ed indirette, disposta dall'articolo 23, comma 1, lett. mm), n. 7, del D.P.R. 26 marzo 2001, n. 107, che ha approvato il regolamento di amministrazione del Ministero delle finanze, infatti, è venuta meno la competenza dei centri di servizio in materia di rimborsi d'imposta.
----------------------------
NOTE
1 L'art. 2 vieta le intese restrittive della libertà di concorrenza e l'art. 3 l'abuso di posizione dominante.
2 Le parole in neretto sono state modificate dall'art. 11, comma 4, della l. 5 marzo 2001, n. 57 (in G. U. del 20 marzo 2001), che ha sostituito le parole "in misura non inferiore all'uno per cento e non superiore al dieci per cento" con l'attuale formulazione ed ha soppresso il riferimento ai "prodotti oggetto dell'intesa o dell'abuso di posizione dominante"
3 Il successivo comma 2 prevede che "Le entrate di cui al comma 1 sono riassegnate con decreto del Ministro del tesoro, del bilancio e della programmazione economica ad un apposito fondo iscritto nello stato di previsione del Ministero dell'industria, del commercio e dell'artigianato per essere destinate alle iniziative di cui al medesimo comma 1, individuate di volta in volta con decreto del Ministro dell'industria, del commercio e dell'artigianato, sentite le competenti Commissioni parlamentari".
4 cfr. Corte di Giustizia, causa C-49/92P e causa C-235/92P, sent. dell'8 luglio 1999
5 cfr. TAR Lazio, sez. I, sent. n. 1541/2000 dell'8 marzo 2000; sent. n.873/2000 del 15 aprile 1999.