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Risoluzione Agenzia Entrate n. 176 del 28.04.2008
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Istanza di interpello /2008-ART.11, legge 27 luglio 2000, n. 212. IRPEF - impresa familiare- recesso del coniuge- DPR 22 dicembre 1986 n. 917
Risoluzione Agenzia Entrate n. 176 del 28.04.2008Con l'interpello specificato in oggetto, concernente l'interpretazione dell'art. 5 del DPR 22 dicembre 1986 n. 917 (T.U.I.R), è stato esposto il seguente
QUESITO
L'istante ha fatto presente di aver costituito un'impresa familiare, attribuendo al coniuge e alla madre una partecipazione agli utili rispettivamente nella misura del 25% e del 24%, quali collaboratrici dell'impresa.
Entro la fine dell'esercizio 2007 dovrà liquidare il coniuge che intende recedere dall'impresa.
In relazione a ciò ha chiesto di conoscere il trattamento fiscale, ai fini IRPEF, delle somme che dovrà versare al coniuge per il recesso dall'impresa, anche per quanto riguarda la possibilità di dedurle dal proprio reddito
A tal fine ha fatto presente che:
- il valore di tale quota è determinato da plusvalenze latenti, dal valore patrimoniale e dalla determinazione dell'incremento del valore di avviamento conseguito dalla data di costituzione dell'impresa familiare a tutto il 31.12.2007.
- la somma in questione è di importo rilevante pertanto sarà liquidata in più annualità, come previsto dall'art. 230 bis c.c.SOLUZIONE INTERPRETATIVA PROSPETTATA DAL CONTRIBUENTE
L'istante ritiene che alla somma attribuita al coniuge recedente siano applicabili le disposizioni dettate dall'art. 20-bis del Tuir, dato che l'impresa familiare è contemplata nell'art. 5 del DPR n. 917/1986.
Ritiene altresì che sia applicabile la disposizione concernente i redditi soggetti a tassazione separata di cui all'art. 17, comma 1 del TUIR essendo l'impresa costituita da più di 5 anni. L'indennità corrisposta dovrà essere tassata secondo il criterio di cassa, nell'esercizio in cui la stessa verrà percepita, indipendentemente dal fatto che il rapporto di collaborazione termini il 31.12.2007.
Reputa, infine, che la somma in questione ai sensi dell'art. 230 bis del codice civile, possa essere dedotta dal reddito prodotto dall'impresa familiare quale costo d'esercizio sulla base del principio di simmetria in quanto tassata in capo al coniuge.
Il pagamento, certo nel suo ammontare per effetto della determinazione del credito vantato dal familiare, è infatti inerente all'attività dell'impresa in quanto sempre riferibile alla produzione dei ricavi tassabili.
Una soluzione diversa si porrebbe in contrasto con l'obbligo di tassazione in capo al collaboratore familiare percepente e creerebbe in caso di una successiva integrale alienazione dell'azienda a terzi una tassazione di somme (avviamento) già assoggettate ad imposizione in capo al familiare che è anteriormente stato liquidato.
Per quanto riguarda il pagamento rateale l'istante ritiene che la deducibilità del costo in termini temporali non sia legata ai diversi esercizi in cui tale indennità verrà liquidata, ma unicamente all'esercizio in cui con atto scritto verranno definite le modalità di pagamento dell'intera somma e la somma dovuta sia pertanto certa e definita nel suo ammontare.PARERE DELL'AGENZIA DELLE ENTRATE
Con la riforma del diritto di famiglia, il legislatore ha rilevato l'esigenza di tutelare il familiare che presta il proprio lavoro nell'impresa di famiglia (normalmente a titolo gratuito) prevedendo, ai sensi dell'art. 230 bis del codice civile, il suo diritto di partecipazione agli utili dell'impresa ed ai beni acquistati con essi, nonché agli incrementi dell'azienda, anche in ordine all'avviamento, in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato. Il diritto di partecipazione è intrasferibile e può essere liquidato in denaro alla cessazione, per qualsiasi causa, della prestazione di lavoro ed in caso di alienazione dell'azienda.
L'art. 230 bis citato, come ha rilevato la giurisprudenza, si applica quando non sia configurabile un diverso rapporto (esempio: un rapporto di lavoro subordinato o associativo - Cass. 24 marzo 2000 n. 3520); è possibile cioè una disciplina negoziale diversa, purché il familiare non sia posto in una posizione deteriore rispetto a quella prevista dall'art. 230 bis.
In tal senso l'istituto in questione assume natura residuale.
Per quanto riguarda la natura giuridica del rapporto che si instaura tra l'imprenditore e i familiari che prestano il proprio lavoro nell'impresa, in giurisprudenza, dopo varie oscillazioni, si è consolidato il principio secondo cui l'impresa familiare ha natura individuale e non collettiva (associativa); pertanto è imprenditore unicamente il titolare dell'impresa, il quale la esercita assumendo in proprio diritti ed obbligazioni, oltre la piena responsabilità verso i terzi. Ciò è comprovato dalla circostanza che il fallimento dell'imprenditore non coinvolge i familiari. In virtù della natura di impresa individuale, le eventuali perdite conseguite sono imputate esclusivamente al titolare dell'impresa familiare.
Muovendo da tale tesi, il legislatore ha stabilito la disciplina fiscale avvertendo, tra l'altro, in considerazione della peculiarità dell'istituto in questione, l'esigenza di porre dei limiti per evitare operazioni elusive, volte ad aggirare il principio della capacità contributiva attraverso abbattimenti di imponibili e riduzioni di aliquote che trasformino il fisiologico godimento di profitti da parte dei familiari in costi per l'impresa.
Così l'art. 5 del DPR 22 dicembre 1986, n 917 (TUIR), nel prevedere che i redditi delle imprese familiari, di cui all'art. 230 bis del codice civile, siano imputati a ciascun familiare, che abbia prestato in modo continuativo e prevalente la sua attività di lavoro nell'impresa, proporzionalmente alla sua quota di partecipazione agli utili, fissa il limite massimo di tale imputazione al 49 per cento dell'ammontare risultante dalla dichiarazione dei redditi dell'imprenditore; inoltre elenca gli adempimenti che devono essere osservati, per poter usufruire di tale disciplina.
In base alle disposizioni richiamate il reddito dell'impresa è dichiarato nel suo ammontare complessivo dall'imprenditore, che è l'unico titolare dell'impresa, il quale può imputare parte del suo reddito ai familiari per un ammontare non superiore al 49 per cento. Va al riguardo rilevato che i redditi imputati a tali soggetti, in proporzione delle rispettive quote di partecipazione non rappresentano costi nella determinazione del reddito dell'impresa familiare, bensì una ripartizione dell'utile dell'impresa stessa. Ciò significa che nella contabilità dell'imprenditore non viene iscritto il "costo" del lavoro del collaboratore ma lo stesso viene remunerato come quota di utile che diminuisce il reddito del titolare in dichiarazione dei redditi.
Inoltre l'art. 60 del TUIR (che si riferisce ad ipotesi diverse dal diritto di partecipazione previsto dall'art. 230 bis c.c.) ha stabilito che "non sono ammesse deduzioni a titolo di compenso del lavoro prestato o dell'opera svolta dall'imprenditore, dal coniuge, dai figli, affidati o affiliati minori di età o permanentemente inabili al lavoro e dagli ascendenti nonché dai familiari partecipanti all'impresa familiare di cui al comma 4 dell'art. 5" (al riguardo Cass. 19012 del 2005 e n. 17963 del 2003).
La liquidazione del diritto di partecipazione all'impresa familiare in caso di recesso non trova una disciplina specifica nel sistema del TUIR, come avviene invece per altre fattispecie previste dai citati articoli 5 e 60.
Ai fini della soluzione della questione relativa al trattamento fiscale dell'operazione in questione occorre pertanto tener conto della peculiarità dell'istituto previsto dall'art. 230 bis del codice civile e della ratio legis espressa dal legislatore fiscale nelle disposizioni su richiamate.
Come evidenziato dalla giurisprudenza, partendo dalla tesi che l'impresa familiare ha natura individuale, la partecipazione del familiare all'impresa ha una rilevanza meramente interna nei rapporti tra l'imprenditore ed i suoi familiari in quanto il fondamento di tale istituto va ravvisato nella solidarietà che deve risiedere nei rapporti familiari e nell'esigenza di tutela e valorizzazione del lavoro prestato dai componenti della famiglia che hanno dato il loro contributo all'impresa, così come stabilito dall'art. 230 bis del c.c.. Per effetto di tale disposizione l'imprenditore deve devolvere parte del suo reddito ai componenti della famiglia che collaborano nell'impresa, e deve liquidare al familiare il diritto di partecipazione nell'ipotesi in cui cessi di lavorare nell'impresa.
Nell'impresa familiare i diritti dei collaboratori non toccano la titolarità dell'azienda e rilevano solo sul piano obbligatorio, senza comportare alcuna modifica nella struttura dell'impresa facente capo al titolare della stessa, che solo ha la qualifica di imprenditore ed al quale spettano i poteri di gestione e di organizzazione del lavoro implicanti la subordinazione dei familiari che lo coadiuvano (Cass. civ., sez. Lavoro, 25-07-1992, n. 8959- Cass. civ., sez. Lavoro, 06-03-1999, n. 1917).
Secondo una interpretazione logico sistematica, quindi, le somme corrisposte dall'imprenditore non sono collegabili all'esercizio della sua attività in quanto dirette a soddisfare esigenze estranee alle finalità e alla logica d'impresa.
In tale contesto la liquidazione al coniuge del diritto di partecipazione all'impresa familiare afferisce alla sfera personale dei soggetti del rapporto in questione e pertanto non è riconducibile a nessuna delle categorie reddituali previste dal TUIR; l'importo attribuito non va pertanto assoggettato ad IRPEF in capo al soggetto percipiente. Come ulteriore conseguenza discende che la somma in questione non rileva come componente negativo e non è deducibile dal reddito d'impresa, non ricorrendo il requisito dell'inerenza previsto dall'art. 109, comma 5 del TUIR, che si configura per le spese riferite ad attività da cui derivano proventi che concorrono a formare il reddito.
La tesi prospettata è conforme tra l'altro al principio espresso con la circolare n. 320 del 1997 che, nell'ipotesi di conferimento in società dell'impresa familiare, ponendosi il problema del trattamento fiscale dei diritti di credito dei collaboratori familiari in ordine agli incrementi patrimoniali loro spettanti, ha affermato che "il titolare dell'impresa familiare che acquisisce la partecipazione dalla società conferitaria dovrà liquidare i diritti di credito spettanti ai collaboratori familiari secondo le regole civilistiche senza che da ciò derivino conseguenze fiscali in ordine al valore delle dette partecipazioni"
Per le ragioni esposte, contrariamente a quanto affermato dall'istante, non può trovare applicazione la disciplina dettata dagli art. 17 e 20 bis del TUIR, che del resto, riguardando le imprese collettive, non può riferirsi all'impresa familiare di cui all'art. 230 bis c.c. che appartiene al solo titolare (i familiari partecipanti hanno diritto solo alla quota degli utili).
Le Direzioni Regionali vigileranno affinché i principi enunciati nella presente risoluzione vengano applicati con uniformità.