Nel caso un dipendente lamentava di aver subito mobbing a causa di insulti rivolti nei suoi confronti dall'amministratore delegato della società nell'ambito di alcune riunioni di lavoro al fine di isolarlo ed escluderlo dal contesto aziendale. Tale finalità sarebbe stata raggiunta nel momento in cui il lavoratore aveva subito un infarto da attribuire, secondo lo stesso, alla condotta dell'amministratore delegato.
Il Tribunale di Milano ha richiamato la giurisprudenza della Corte di Cassazione e della Corte Costituzionale che, in assenza di una disciplina normativa, definiscono il mobbing "una fattispecie di danno derivante da una condotta del datore di lavoro protratta nel tempo e con le caratteristiche della persecuzione, finalizzata all'emarginazione del lavoratore".
Il giudice ha osservato che elementi caratterizzanti di questo comportamento sono:
Il giudice ha rilevato che dall'istruttoria emergeva come l'amministratore delegato fosse solito a non curare la parte formale delle proprie comunicazioni, adoperando anche espressioni talora volgari nei rapporti con colleghi e dipendenti. Risultava anche parzialmente dimostrato che in certe occasioni egli avesse adoperato simili espressioni con il lavoratore, ma che si era trattato di singoli episodi, senza l'intento premeditato di umiliarlo o screditarlo.
Era emerso infine che, in generale, le comunicazioni e i rapporti all'interno dell'azienda avevano un tenore piuttosto informale e che anche il lavoratore si rivolgeva con espressioni gergali ai propri colleghi incluso lo stesso amministratore delegato.
Il Tribunale ha ritenuto che gli elementi di mobbing non potevano considerarsi sussistenti in quanto non poteva essere provata l'esistenza di un disegno persecutorio elaborato e perseguito dalla società e, in particolar modo, dal suo amministratore delegato, in danno del dipendente.
Di conseguenza, il ricorso del dipendente è stato rigettato.
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