Ambito civilistico
La migliore dottrina contrattual-civilistica distingue la figura del c.d. "socio lavoratore" da quella del c.d. "socio d'opera".
Il socio lavoratore è colui che presta il proprio servizio alle dipendenze della società assumendo (ove la normativa lo consenta) la figura di lavoratore subordinato; invero il soggetto che partecipa alla società conferendo un'attività lavorativa suscettibile di una valorizzazione economica e in virtù della quale diviene appunto socio, va inquadrato quale socio d'opera.
In tal senso, l'articolo 2464 del codice civile prevede la possibilità, anche nelle società a responsabilità limitata, di conferire prestazioni d'opera o di servizi a favore della società, purché l'attività lavorativa del socio d'opera sia garantita, per l'intero valore ad essa attribuito, da polizza di assicurazione o fideiussione bancaria. Tale garanzia deve avere un termine di scadenza coincidente con il termine della prestazione.
E' quindi possibile inquadrare le opere suscettibili di valutazione economica fornite dai soci nei confronti della società nell'ambito delle cd. "prestazioni accessorie" contemplate però dall'art. 2345 cc solo con riguardo alle società per azioni.
Ora, pur se le nuove regole del codice civile delineate dal legislatore della riforma per le S.r.l. non prevedono un espresso rinvio alla disciplina delle prestazioni accessorie nella S.p.a. (così come, invece, avveniva in passato in virtù di quanto previsto dal previgente art. 2478 c.c.), secondo la giurisprudenza (cfr. massima del Notariato di Milano n. 9 del 18.3.2004), una tal mancanza non fa venir meno la possibilità di potere stabilire con atto costitutivo (ma anche con atto diverso dall'atto costitutivo, per esempio una delibera assembleare (Corte di Cassazione, 5.7.1978 n. 3319, Tribunale Milano 17.4.1982) l'obbligo dei soci di una società a responsabilità limitata di eseguire prestazioni accessorie determinandone contenuto, modalità di esecuzione, durata e compenso.
La particolarità del rapporto sottostante la prestazione determina che l'opera realizzata non possa qualificarsi quale prestazione derivante da contratto di lavoro subordinato ma piuttosto legata ad una obbligazione sociale prevista dallo statuto (o da specifica delibera assembleare (1) il cui compenso viene stabilito e pattuito nel rispetto del criterio civilistico.
Aspetti tributari
Circa i riflessi fiscali - riguardanti sia la società che beneficia delle prestazioni accessorie, che i soci - del trattamento fiscale dei compensi erogati è intervenuta l'Agenzia delle entrate con un intervento di prassi formalizzato con risoluzione 11 marzo 2002 n. 81/E.
Una S.r.l. artigiana che aveva deliberato l'obbligo per due soci di eseguire prestazioni accessorie, di tipo manuale ed operativo, a favore della società chiedeva alla Direzione Regionale competente di verificare se tali compensi potessero essere dedotti dal reddito e con quale modalità andavano sottoposti a tassazione in capo ai soci.
Relativamente alla posizione della società, l'intervento di prassi ha ritenuto ammissibile "... la deducibilità dal reddito d'impresa di tali particolari oneri pur derivanti da obblighi assunti in qualità di soci, in quanto le prestazioni rese sono strettamente inerenti allo svolgimento dell'attività d'impresa...".
Il criterio di deducibilità delle prestazioni di servizi è quello della "competenza temporale" sancito dalla lettera b), comma 2, art. 109, D.P.R. 22/12/1986, n. 917, secondo cui "... le spese di acquisizione dei servizi si considerano sostenute alla data in cui le prestazioni sono ultimate, ovvero per quelle dipendenti da contratti di locazione, mutuo, assicurazione e altri contratti da cui derivano corrispettivi periodici, alla data di maturazione dei corrispettivi...".
Il chiarimento ufficiale qualifica(va) i compensi ricevuti dai soci "... redditi derivanti da collaborazioni coordinate e continuative .... da assoggettare alla medesima disciplina fiscale prevista per i redditi di lavoro dipendente ...".
Il superamento delle tipologia contrattuale delle collaborazioni coordinate continuative avviato con la riforma Biagi di cui al D.lgs. 276/03, proseguito con la riforma Fornero di cui al D.L. n. 76/2013, pone inevitabili interrogativi sul trattamento reddituale cui assoggettare i compensi per prestazioni accessorie percepiti da soci.
In attesa dei doverosi approfondimenti di prassi potrebbe, in linea teorica, essere avanzata la tesi secondo cui tali compensi possano essere attratti nell'ambito della categoria "residuale" dei redditi diversi, di cui alla lettera l), comma 1, D.P.R. 22.12.1986, n. 917, tra i "...redditi derivanti dall'assunzione di obblighi di fare ..." (2), anche se, in questo caso, si porrebbe il problema della copertura previdenziale.
In definitiva, la pronuncia ministeriale appare abbastanza chiara nel consentire alla società di poter dedurre per competenza gli oneri cui si discute, mentre i soci tassano i compensi spettanti solo all'atto del pagamento delle proprie spettanze.
Note conclusive
A prescindere dalla prassi eccessivamente spregiudicata - peraltro adeguatamente confortata sul piano normativo ex art. 88, co. 4, D.P.R. 22.12.1986, n. 917 - che consente ai soci poter rinunciare ai propri crediti vantati presso la società (precetto normativo confutato dall'Amministrazione finanziaria in sede di C.M. n. 73/94, cd. "incasso giuridico"(3) è certamente necessario che i proprietari della società provvedano, a partire dall'esercizio in cui è ultimata la prestazione accessoria (che corrisponde a quello in cui è operato l'accantonamento del debito verso i soci) e negli esercizi a riscuotere i propri compensi, proprio al fine di scongiurare il cd. " salto d'imposta".
Chi scrive suggerisce agli amministratori di predisporre la massima cautela nella fase della quantificazione dei compensi spettanti ai soci, potendo essere oggetto di sindacato in ordine alla loro congruità in caso di controllo da parte degli uffici dell'amministrazione finanziaria.
Il compenso deve essere determinato secondo criteri di ragionevolezza in relazione alle dimensioni, alla struttura e alla redditività della società ed ancorato a parametri oggettivi, nonché evidentemente alla prestazione concretamente effettuata. In assenza di norme specifiche, non di rado si sono verificate contestazioni di congruità (seppur con riferimento ai compensi pagati agli amministratori) in quanto compensi troppo elevati costituirebbero, secondo l'A.F., un artificio elusivo volto a distribuire utili mascherandoli da compensi.
Note:
(1) Si vedano i fac simili allegati al presente intervento
(2) Soluzione prospettata dalla società istante in sede di interpello definito con la citata R.M. n. 81/E/2002, ma censurata dai tecnici ministeriali
(3) La società dovrà operare una ritenuta dato che, secondo il Min. Fin. (C.M. 27.5.94 n. 73/E), la rinuncia a crediti correlati a redditi che vanno acquisiti a tassazione per cassa presuppone l'avvenuto incasso giuridico del credito.
Una sentenza della Corte di Cassazione, la n. 20026/2010, ha chiarito che i compensi, cui i soci hanno espressamente rinunciato, diventano utili non distribuiti e non sono deducibili. L'espressa rinuncia ai compensi, con delibera assunta in un periodo successivo, toglie causa all'iniziale allocazione dei compensi e la conseguenza è quella che l'accantonamento iniziale perde il carattere di debito sociale per rimessione del creditore assumendo carattere di utile non distribuito e pertanto non deducibile.
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