Era il febbraio del 2012, quando la Camera dei Deputati votò a maggioranza il Ddl di conversione del decreto legge c.d. ‘svuota-carceri', nello stesso testo già approvato dal Senato.
Si disse, al tempo, che tale normativa fosse assolutamente necessaria per risolvere i problemi del sovraffollamento carcerario (quella del 2010, evidentemente, non era stata sufficiente).
Molte polemiche ci furono, giusto due anni fa, tra chi riteneva tale norma un "indulto mascherato" e chi pensava che vi fosse l'improrogabile necessità di far uscire dalle strutture penitenziarie un numero certo di detenuti, al fine di migliorare le condizioni di vita di coloro che affollano le patrie galere.
Il decreto "svuota-carceri" del 2012 prevedeva l'ampliamento della possibilità di detenzione domiciliare per i detenuti che debbano scontare gli ultimi 18 mesi di pena (estendendo i 12 mesi di una norma precedente, del 2010), lasciando comunque al Giudice una valutazione sul punto. Si disse che tale norma non comportasse l'applicazione di un automatismo, che non fosse un indulto mascherato, e che solo un numero limitato di detenuti potrà accedervi.
Ovviamente di poteva rispondere facilmente a tali affermazioni sottolineando che la valutazione del Giudice non è di fatto metro oggettivo che garantisca una tutela dei cittadini in ordine alle previste scarcerazioni, ovvero che, se il numero degli interessati fosse stato davvero limitato, non si vede quale potesse essere l'efficacia della norma rispetto agli obiettivi posti.
Poi nel 2013, un altro decreto "svuota-carceri" venne predisposto dal governo Letta (quasi in sordina, durante l'estate): ancora si parlò di indulto o di amnistia nascosti. Proseguendo sulla strada tracciata dal governo precedente, il ministro Cancellieri ha impresso una accelerazione, puntano molto sulle misure alternative al carcere e sui tempi di scarcerazione.
Lo scopo, come sempre, è esclusivamente quello di liberare spazi all'interno delle prigioni italiane, al fine di migliorare le condizioni di vita dei detenuti e, incidentalmente, di evitare le sanzioni dell'Unione Europea che vengono regolarmente comminate all'Italia a causa della situazione carceraria.
Se poi si ascoltano le dichiarazioni dei ministri, risulta evidente come tali interventi siano solamente dei palliativi, e come ciò che serva (dalle loro stesse parole) sia una riforma del sistema carcerario... eppure son passati 7 mesi, nessuna riforma complessiva è stata neppure abbozzata, e siamo di nuovo al punto di partenza.
Tutti abbiamo sentito, all'apertura dell'anno giudiziario 2014, infatti, il Primo Presidente della Corte di Cassazione dire testualmente che "per ridurre il numero dei detenuti, l'indulto è l'unica soluzione".
Siamo, quindi, di nuovo in uno stato di emergenza, in ordine la quale tutti (politici, magistrati e, sfortunatamente pure molti colleghi avvocati) si limitano a guardare, giorno dopo giorno, al contingente, senza affrontare alla radice quelli che sono i veri problemi del sistema penitenziario italiano.
La cosa va detta in modo chiaro: un ordinamento giuridico non si regge su norme affastellate l'una sull'altra destinate a coprire un arco temporale limitato (dal 2010 ad oggi abbiamo avuto tre provvedimenti "svuota-carceri"), ma su di un complesso ordinato di regole e norme, tali da definire e regolare nel tempo i fenomeni sociali, senza bisogno di continui interventi modificativi o di aggiustamento. Dato ciò, non si può che considerare questa richiesta di indulto per risolvere il sovraffollamento delle carceri (che peraltro suona come un'evoluzione rispetto al mero "svuota-carceri") come l'ennesimo chiodo sulla bara del sistema giuridico italiano, nonché sulla credibilità dell'ordinamento nel suo complesso.
Richiamando brevemente (e semplificando) i ricordi dei corsi universitari di Filosofia del Diritto, si può dire che un qualsiasi ordinamento giuridico deve essere caratterizzato da una ragionevolezza e da una coerenza interna: deve presentarsi e strutturarsi come un insieme di norme che si sorreggono e si incastrano l'una con l'altra, che si danno credibilità a vicenda, venendo poste dal legislatore in virtù dell'autorità che il popolo ad esso concede, al fine di regolare i rapporti tra i cittadini.
L'esempio più eclatante di tale patto tra cittadini e Stato riguarda certamente l'ambito del diritto penale, nel quale i primi delegano al legislatore il compito di mantenere la pace sociale, punire le violazioni, nonché garantire, oltre ad una vita sicura, anche un ristoro per i danni eventualmente patiti a causa della violazione delle regole.
Ed il modo in cui lo Stato punisce chi sbaglia è la pena.
Questo orribile termine, la pena (valutato oggi dai più come sinonimo di tortura), ha avuto nelle teorizzazioni del diritto tre funzioni principali: retributiva (ovvero deve punire il colpevole per il male da lui provocato), dissuasiva (ovvero deve spaventare e convincere i cittadini a non violare le norme per non esservi sottoposti) e rieducativa (ovvero deve consentire al colpevole di capire i propri errori, ed aiutarlo a rientrare produttivamente nella società).
Orbene, cosa resta oggi, in Italia, di questo istituto,dal punto di vista puramente giuridico? Assolutamente nulla.
La funzione retributiva, da tempo considerata retaggio di Stati non liberali, è stata piano piano smontata da leggi che prevedono pene alternative, riduzioni di pena, concessione di permessi ed altre forme di premialità tali da ridurre in modo considerevole l'afflizione che si dovrebbe patire a seguito di una condanna penale oltre, ovviamente, i tempi della pena stessa. Oltre a ciò si aggiungano le predette periodiche amnistie, indulti, grazie e tutta quella serie di provvedimenti che in Italia si rendono necessari per risolvere il ricorrente "problema carceri".
La funzione dissuasiva, di conseguenza, ne viene minata grandemente: tanto, si dirà il condannato di turno, mi danno tre anni ma ci sarà l'indulto, me ne danno dieci ma non li farò tutti in carcere, mi mancano ancora cinque anni da scontare ma magari mi danno la semilibertà. Appare evidente che uno Stato che, a monte, si rimangia le sue stesse norme non possa dimostrare alcuna forza cogente nei confronti di chi tale norme le vìola.
E la funzione rieducativa? Oggi sembra essere l'unica finalità accettata ed accettabile per la pena: non conta sanzionare chi ha compiuto il reato, ma consentire che questo possa riabilitarsi e rientrare nella società da cittadino onesto. Ma anche tale funzione è strettamente collegata con le precedenti: se lo Stato non rispetta le sue stesse regole, che spinta psicologica alla rieducazione verso il rispetto delle stesse può dare a chi sconta la pena? Ovviamente, nessuna.
Si badi bene: non intendo dire che lo Stato debba essere un sanguinario aguzzino che tortura i colpevoli e non si cura di un loro possibile nuovo ingresso in società. Il nocciolo della questione è che il sistema, demolito dalle sue stesse leggi (che non ne sono più appendici coerenti, ma strappi e lesioni), perde la sua stessa forza e tradisce il patto coi cittadini.
Ed ora, sulla scena, appare di nuovo (per la quarta volta in 5 anni) il problema del sovraffollamento delle carceri, che deve essere risolto per evitare violazioni dei diritti umani a causa delle condizioni di vita negli istituti di pena: ovviamente però, le modalità scelte sono come la pallina della teoria del piano inclinato, che ha iniziato a rotolare senza più fermarsi, ma correndo dalla parte sbagliata.
L'indulto prospettato e richiesto, come i precedenti provvedimenti, sono minati alla base dal fatto che il principio ispiratore di tali norme distorcono quella che è la funzione del sistema penitenziario e della normativa in materia.
Infatti, da una breve e verificabile analisi della situazione carceraria, i problemi del sovraffollamento delle carceri potrebbero essere fortemente arginati, se non risolti, con due tipi di provvedimenti conformi ai principi dell'ordinamento.
In primo luogo, essendovi in carcere molte persone in attesa di giudizio (in quanto sottoposte a misure cautelari) si potrebbe trovare una soluzione alternativa per tali situazioni, magari applicando a loro la custodia non negli istituti di pena (domiciliari o ristrutturando vecchie caserme dismesse). Si può obiettare che ci sono pericolosi assassini, mafiosi e altri imputati di reati gravi, ma quel che va tenuto presente è che, a norma di Costituzione, queste persone sono tutte presunti non colpevoli, e dal punto di vista della legge dovrebbero aver diritto a maggior tutela rispetto a chi è in carcere a seguito di una intervenuta condanna (è ovvio, poi, che vi possono e vi debbono sempre essere le dovute eccezioni).
In secondo luogo, si potrebbero aprire ed utilizzare quella quarantina di istituti di pena praticamente pronti da venti o dieci anni, non ancora inaugurati o sottoutilizzati per chissà quale arcano motivo.
Liberati i 206 istituti di pena oggi funzionanti dalla presenza di chi ancora non ha subito una condanna, e ridistribuiti i restanti carcerati anche nelle nuove strutture, il problema potrebbe avviarsi ad una soluzione coerente con l'ordinamento: i colpevoli scontano la loro pena, e chi ancora non lo è non ne paga in anticipo le conseguenze (magari non dovute).
Va da sé che, in ogni caso, nulla vieta di costruire nuove strutture carcerarie per dare applicazione alla sentenze di condanna (non mi soffermo neppure sul fatto che potrebbe anche essere un volano per l'economia).
Ma in Italia una prospettiva del genere sembra paradossale: qui dove la notizia è l'indagine in corso, mentre la sentenza diventa un optional non necessario e quasi fastidioso (specie se di assoluzione), emanare una normative come i decreti "svuota-carceri" o chiedere con insistenza amnistie ed indulti, diventa un esempio di lungimirante politica carceraria, laddove, al contrario, appare evidente l'incongruenza rispetto alle norme dell'ordinamento, nonché lo svilimento delle funzioni tutte facenti capo alla pena.
Ci si potrà sorprendere che sia un avvocato a criticare provvedimenti di questo genere, invece di fare i salti di gioia per la prossima scarcerazione di un suo eventuale cliente. Il fatto è che non è mia intenzione, in questa sede, far emergere un piccolo interesse di bottega, ma fissare l'attenzione su due questioni che i miei professori universitari spesso citavano come fondamentali: la certezza del diritto (e quindi della pena) e la coerenza dell'ordinamento.
Il problema del sovraffollamento delle carceri esiste, non lo si può negare, ma va risolto secondo quelli che sono i principi dell'ordinamento. Non si deve violare la certezza del diritto né sacrificare la coerenza del sistema giuridico sull'altare di pretese difficoltà tecniche.
Perché se si inizia a far traballare questi, che sono i capisaldi di ogni ordinamento giuridico, non si può che minarne la credibilità: e una volta che tale credibilità sarà definitivamente infranta, come potrà lo Stato, allora, pretendere da parte dei cittadini il rispetto delle norme da esso stesso poste?